“Woaaah!” urla il coro esaltato battendo il ritmo coi piedi sugli spalti di legno.
(“Ladies and gents this is the moment you’ve waited for…”)
“Woaaah!” e partono titoli di testa come cartelli di un film muto.
(“Been searching in the dark, your sweat soaking through the floor”)
“Woaaah!” è la ola che invoca il mastro di cerimonie, l’illusionista dei freaks, il P.T. Barnum che dal passato irrompe nell’oggi fra i colpi prepotenti dei piedi e pulsazioni light-rock, chiedendo udienza, prendendo i respiri e rubando i pensieri. Invitandoci tutti a lasciare il reale alle nostre spalle (“Taking your breath, stealing your mind. And all that was real is left behind”).
Vecchio e nuovo si si ricongiungono idealmente nell’ infervorato incipit di “The Greatest Showman” introducendoci al più grande spettacolo del mondo non al suono di una banda di ottoni ma sulle note e i versetti di una canzone pop e già dannatamente orecchiabile. Con ancora negli occhi un romantico tip-tap su sfondo blu cobalto o una silhouette di danzatori che si librano su un firmamento di stelle, ci prepariamo ad accogliere questa nuova avventura musicale col cuore aperto e, naturalmente, con le orecchie spalancate. Perché dopo “La La land” è ancora musical, per fortuna. Dopo il ritorno di fiamma per balli e gorgheggi grazie al gioiello di Damien Chazelle, il pubblico di mezzo mondo ha nuovamente (ri)scoperto il piacere di cantare sotto la pioggia così come in mezzo ai budelli delle macchine in fila. Diciamo “nuovamente” perché, almeno in Italia, a nessun genere così come al musical tocca ogni volta “faticare” per (ri)conquistare brandelli di credibilità popolare o per riappropriarsi di una platea pregiudizialmente in fuga da note, danze e coreografie bigger than life. Un’affezione che nell’ultimo ventennio si è rinnovata ciclicamente soltanto in occasione delle grandi innovazioni linguistiche (il postmoderno di “Moulin Rouge!”) o dinanzi ad oliati congegni ad orologeria dell’entertainment (“Chicago”, “Mamma mia!”), ma che è mancata totalmente nei confronti di audaci sperimentazioni (“Across the universe”) o nei riguardi del cosiddetto teatro filmato (“Il fantasma dell’Opera” di Webber e un classico come “Les miserables”, sdegnati in sala dallo stesso pubblico che applaude il non-musical di Cocciante e succedanei).
Un vero peccato perché, a prescindere dalla materia di cui sono fatte le storie (alcuni di quei flop sono esemplari purissimi del genere ma anche opere tragiche ed articolate), l’affetto per il musical dovrebbe andare di pari passo con quello per il cinema, dato che il primo non è altro che una drammatizzazione “fantastica” e naturale del secondo, sorta di effetto speciale “sonoro” che accompagna gli sviluppi narrativi alla medesima stregua degli effetti visivi (per chi scrive paragonabile, come portata, alle fantasticherie visive di George Meliès). Ma dovendo fare i conti coi gusti e con le ovvie alterazioni umorali del pubblico, meglio prendersi solo quel che di buono stagionalmente l’industria può offrire (compresi i nostrani e coraggiosi “Ammore e malavita” e “Gatta Cenerentola”) e, naturalmente, godersi lo spettacolo. Il più grande spettacolo ovviamente.
“The Greatest Showman” è giunto in sala introdotto dal battito irresistibile dei piedi e da un impianto sfavillante e fantasmagorico come cinema e circo richiedono. La storia vera, ma qui di cartapesta, di Phinneas Taylor Barnum e del suo contestato circo di freaks, è un’istantanea sopra un visionario anticipatore dello show business moderno, l’abile orchestratore di fenomeni ed umori che, qualche lustro prima che venisse partorito il cinema, per primo seppe dare corpo ad una delle anime indispensabili dello spettacolo: la propaganda. Quel business insomma senza cui lo show non sarebbe realizzabile, all’infuori dei giochi di luce di una lanterna magica proiettata sulle lenzuola stese. Ma se ambiguità e mistificazioni hanno accompagnato sempre la discussa e “processata” biografia del papà del Circo Barnum, al cinema (e soprattutto al musical) tutto ciò non può giustamente importare, perché ciò che conta resta sempre e solo il mero intrattenimento. Più che la storia vale allora la storicizzazione, ma non tanto quella di un uomo dentro il suo tempo, quanto l’altra, quella cioè dello spettacolo nello spirito di chi lo percepiva fremente sugli spalti.
“The Greatest Showman” è proprio come quel woaaah! introduttivo, uno strepito giovane e “popular” che il cinema si incarica di riportare fino a noi traducendone lo spirito nell’ accezione musicale più congeniale ed adeguata: il pop. Un’operazione esattamente inversa a quella già effettuata in “La La land” (con cui “The Greatest Showman” condivide gli autori dei testi delle canzoni ma non il musicista Justin Hurwitz). Lì il jazz diventava proiezione musicale classica (e cinefila) che irradiava il sentimento moderno; qui l’ambientazione storico/favolistica (quell’Ottocento alleggerito nei toni ma non nei temi) si rivolge invece al moderno quale voce espressiva capace di suscitare interesse (e dunque ascolto). E la musica, da colta, raffinatissima e ricercata come in “La La land”, si fa conseguentemente più leggera, facile, “visiva” e melodiosa. Le note flirtano col videoclip e diventano fieramente orecchiabili, scontentando magari qualche palato che si attendeva di ritrovare nuove canzoni classiche ma elargendo soddisfazione ad altre orecchie disposte a (ri)ascoltare. E del resto non c’è nulla in quelle singole partiture che non esprima altro che una gioiosa voglia di esistere. Come si fosse tutti in un cartone o dentro una colorata scenografia dipinta a mano.
Hugh Jackman è la perfetta incarnazione di questo spirito lieve ed entusiasta, autenticamente padrone della propria gamma espressiva musicale (basti paragonare questa performance a ugole spiegate e intonate a quella sommessa e rotta dal pianto de “Les miserables” per avere idea delle sue eccelse doti di performer), così come della propria prestanza fisica (che giunge dritta da un cinecomic durissimo come “Logan”). Gli fa eco un Zac Efron adulto e non più bambolotto teen (il duetto con Jackman fra gli sciortini nel bar è un gioiello di ritmo e simpatia) e l’emergente Zendaya, star disneyana e “giovanilistica” nella giusta misura. Note di merito per la sempre meravigliosa Michelle Williams (uno degli assoli più amabili del soundtrack) e per la bellezza tutta aristocratica della svedese Rebecca Ferguson (doppiata da Loren Alreed nella bellissima “Never enough” ma capace comunque di far dimenticare le carenze musicali con la sua invidiabile presenza scenica). Discorso a parte infine per il gruppo dei freaks, magari poco perturbanti o problematici (siamo pur sempre in un musical) ma anche dotati di innegabile simpatia. Sono capitanati qui dalla grintosa donna barbuta di Keala Settle, magnifica presenza musicale dei teatri di Broadway a cui “tocca” intonare il brano più rappresentativo dell’intero musical, quella “This is me”, inno pop di autoaffermazione dei diversi, che ha già scalato le classifiche negli States e che con ogni probabilità si porterà a casa l’Oscar.
Un ensamble di volti, musiche e colori quello messo insieme per “The Greatest Showman” che funziona più per alchimia che per calcolata chimica. E che rende felici proprio per questo. Dopotutto non è l’alchimia (l’arte di trasformare il metallo in oro) la prima forma di mistificazione assoluta? Sarebbe piaciuto questo film a P.T. Barnum. L’uomo che fece del motto ”L’arte più nobile è quella di rendere gli altri felici” la sua filosofia dello spettacolo, aveva in fondo più di uno scopo in comune col cinema. Nonostante luci ed ombre s’intende. Ma quella è un’altra storia.
Andrea Lupo
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