L’errore più frequente in cui si può cadere quando ci si imbatte dal vivo in Marcello Fonte è quello di credere che l’attore e il personaggio a cui questi dà vita, l’altro “Marcello”, vessato protagonista di “Dogman”, non siano che estensioni della medesima personalità. Sarà perché quella maschera sfoggiata nel film (e che, probabilmente, sarebbe piaciuta assai a Pasolini) tra portamento, voce disarmonica ma gentile e lo sguardo carico di incontaminato stupore per il mondo, del vero Fonte è anche cifra prevalente . Dal vivo infatti (il luogo del prestigioso incontro dell’attore col pubblico e i giornalisti è stato il Cine City Ariston di Catania) Marcello è esattamente come il mite toelettatore per cani del film di Matteo Garrone: garbato, gioviale e premuroso nei confronti di tutti, disponibile ad ogni richiesta avanzata da quel pubblico che lo attendeva già fuori dal cinema (i primi autografi li firma senza scomporsi sopra il cofano di un’auto parcheggiata davanti il multisala). Non lesina perfino ad appellare (anche ironicamente) col suo proverbiale “Amoreee!” utilizzato nel film le manifestazioni più affettuose dei fan, spettatori accorsi lì giusto per incontrarlo dopo averlo ammirato sul grande schermo.
Ma, proprio come la gentilezza ostentata nel film, sorta di primo strato “ecologico” di un dogman ben più complesso ed ambiguo, anche la cordialità istintiva e fraterna di Marcello non è che l’aspetto più appariscente di una personalità, umana e lavorativa, saldamente ancorata alla vita e alla professione. Perché se Cannes e il premio attoriale più importante rappresentano ovvie materializzazioni di un sogno, non è solo all’imprevedibilità del caso o all’impressionabilità in positivo della giuria guidata da Cate Blanchett che esse vanno imputate. La stessa visione poetica di Marcello (il picchiettare della pioggia sulle lamiere delle baracche dell’infanzia che si trasforma negli applausi sontuosi di oggi, ellissi cinematografica che colpisce al cuore proprio perché evocata e “non filmabile”) è frutto di quasi vent’anni di carriera passata davanti -ma anche dietro- la macchina da presa. Quattro lustri di lavoro che si aggrovigliano irresistibilmente e duramente con la vita stessa, quella che trova il suo prologo nella periferia povera di Archi– la pioggia che applaude sopra le lamiere e il rullare col tamburo della banda del paese- e prosegue poi fino a Roma, al seguito del fratello scenografo che introduce un giovane Marcello alle seduzioni del cinema. Prima della settima arte però era stata la volta dell’”arte”, declinata in tutti quei mestieri che insegnano la vita ed educano alla resilienza: imbianchino, barbiere, falegname, elettricista, sarto, custode infine comparsa e finalmente attore.
Il viaggio di Marcello verso il cinema dunque non contempla l’alfabetizzazione ordinaria e più fortunata di chi frequenta le scuole specializzate del settore, ma comprende piuttosto uno studio sulla materia (come autodidatta) nutrito fra le quinte di quell’ ambiente, mentre l’istinto va addomesticandosi sui palchi dei teatri. Ed è una scuola la sua che non ha nulla da invidiare a qualunque corso sulla tecnica. Non è “per caso” dunque, come lui stesso tiene giustamente a puntualizzare (in giro c’è chi lo crede solo un volto beginner scovato fortuitamente per il film), che è avvenuto l’incontro con Matteo Garrone e col cinema in generale. “Sorte” dopotutto non è che l’attuale punto di approdo di un percorso di maturazione che ha visto passare l’attore dalle esperienze del Teatro Valle (è stato uno degli occupanti storici) e dell’ Angelo Mai (luogo di cultura sociale e libertà creativa purtroppo posto sotto sigillo dalla recente politica amministrativa capitolina) fino all’autogestito cinema Palazzo. Fra gli interstizi di queste esperienze teatrali maturate in spazi sociali difficili ma anche collaborativi e creativamente rigogliosi, troveranno cittadinanza la tv (“Don Matteo”, la serie “La mafia uccide solo d’estate”) e naturalmente il cinema, prima sotto forma di comparsate e piccole parti (“Gangs of New York” di Scorsese, “Concorrenza sleale” di Scola, “Corpo celeste” della Rohrwacher, “Il sangue dei vinti” di Soavi), passando poi per la prima esperienza registica condivisa con Paolo Tripodi (il semi-biografico “Asino vola”) e infine nelle vesti di interprete cinematografico sempre più presente (“Io sono tempesta” di Luchetti) e oggi prevalente (“Dogman”, film-corpo costruito quasi sul suo sembiante). E a proposito del film trionfatore a Cannes per la sua interpretazione l’attore rivela al pubblico catanese come nulla è stato lasciato al caso o all’improvvisazione durante la lavorazione. Tre mesi di preparazione meticolosa (comprendente l’assimilazione delle tecniche di toelettatura e i princìpi del dog-sitting), un regista che punta al midollo del progetto (“Garrone non lo freghi” spiega “se non sei completamente dentro se ne accorge subito”), e una bambina (la giovanissima e già brava Alida Baldari Calabria) capace di infondere a lui quel coraggio che, per sua stessa ammissione, gli difettava nel dare corpo a un delicato ruolo di padre. E le immersioni nell’acqua che li vedono entrambi protagonisti nel film paiono non a caso metaforicamente speculari a quell’inabissarsi come interpreti nelle pieghe fisiche e psicologiche dei rispettivi personaggi.
Una vicenda, quella del “Dogman”, dichiaratamente ispirata al famoso delitto del Canaro della Magliana, ma una storia, quella che prende forma sul grande schermo, che col fatto di cronaca degli anni ’80 ha solo alcune convergenze “necessarie”, giusto quelle che consentono a Garrone di utilizzare l’ossatura quale sostegno di una propria e ben diversa “carne”. E la sostanza di cui è fatto questo cinema è ancora una volta la risultanza di un meticoloso processo di riscrittura e di revisione intellettuale della materia di partenza. Garrone infatti si serve della cronaca del Canaro nello stesso modo in cui aveva utilizzato il corpus letterario di Giambattista Basile (frammenti di racconti che si intersecavano fra loro e con una personale concezione poetica sugli “sconfitti” per ri-comporsi in un inedito quadro di neo-realismo fiabesco e morale) o i report di “Gomorra” (anche qui strutturati in quattro segmenti esemplificativi ed intersecati fra loro, con il substrato documentaristico di fondo che si trasfigurava nella falda di un territorio post-apocalittico). Il “dogman” riletto da Garrone è archetipo favolistico (l’uomo buono e remissivo, il padre che sogna per la figlia) e sua immediata contraddizione (il buono piegato-affascinato dal male, quest’ultimo a sua volta non così leggibile come sembra); intorno a lui un paesaggio reso alieno (Castel Volturno), apparentemente attuale ma forse già futura maceria di un mondo appena concluso. Qui gli imbalsamatori di creature vive invano mirano a fissare un sogno (la Calabria come le Maldive, il delinquente come l’amico), ma la tassidermia -sociale, psicologica- è processo che si è già impossessato di tutti, vicini del dogman compreso, e la luce, non a caso, fa fatica a portare (nuova) vita. La reality ancora una volta è proiezione di un desiderio impossibile da compiersi (come quella partita giocata nell’onirico finale), solo che il troppo desiderio infine ha ucciso la realtà per assumerne le vesti e ora ne porta in giro l’unica cosa che resta: il suo grottesco e ingombrante cadavere.
E quel corpo metaforico portato in spalla da Marcello nel film è anche corpo fisico (quello massiccio del bravo Edoardo Pesce) che il vero Marcello Fonte si è caricato sulle sue apparentemente esili giunture, ultimo atto di un processo di generosa immedesimazione (e abnegazione) d’attore che solo gli artisti dotati di cuore possono compiere. “Cuore di Cannes” l’ho appellato nella dedica del disegno realizzato per l’occasione e regalato in occasione dell’incontro col pubblico. Nessuna ironia o facile poesia da gioco parole nelle intenzioni ma solo una veritiera constatazione che la breve dedica può solo sottintendere. Perchè il cuore con cui Marcello si è fatto largo in mezzo alla platea nobile e glamour di Cannes non è solo quello poetico del bambino che fantastica sotto la baracca, ma il sogno ruvido di chi la vittoria l’ha afferrata con la forza delle sue dita nodose. Un racconto in mezzo ai racconti che quelle dita non si limitano solo a sfogliare. Il romanzo non può che continuare.
Testo e disegno di Andrea Lupo
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